Sand play therapy

La Sandplay Therapy fu introdotta nell’ambito della psicologia analitica dall’analista junghiana Dora Kalff, (1904-1989), allieva di C.G. Jung, negli anni sessanta. Essa consiste, come spiaga la Kalff in un piccolo mondo, costruito con sabbia, oggetti naturali, miniature di case, uomini e animali, per mezzo del quale il paziente mette in scena per immagini le sue emozioni. Tutto ciò apre nuove prospettive al pensiero.

Il gioco della sabbia in psicologia permette di contattare contenuti inconsci che appartengono alla fase pre-mentale; le primitive forme del funzionamento mentale, le esperienze emotive ed istintive, possono esser messe in luce e prender forma, veicolate dalla corporeità, attraverso l’uso del sabbia. Ciò che trova spazio di rappresentazione nella sabbia all’interno della sabbiera, non sono solo pensieri che ancora non riescono ad essere pensati ma anche quelle aree psichiche che son rimaste strettamente ancorate alla realtà corporea e che non riescono a trovare una dimensione di simbolizzazione per poter essere integrate.

L’uso della sabbiera all’interno di una terapia psicologica si configura non solo come veicolo che mette in scena il complesso rapporto tra l’Io e l’Inconscio, ma anche come efficace attivatore della dimensione corporea all’interno dello spazio analitico. Il livello di regressione che si raggiunge attraverso i quadri di Sandplay Therapy è estremamente profondo.

L’idea centrale del gioco della sabbia è, quindi, che attraverso il gioco che si organizza nella cassetta della sabbia, possono esser contattati contenuti inconsci, non esprimibili a livello verbale, che possono però esser espressi nelle immagini e in questo modo resi parzialmente coscienti ed elaborabili a livello preverbale.

Dora Kalff chiamava la sabbiera “uno spazio libero e protetto”, uno spazio dove il paziente può rappresentare aspetti del proprio mondo interno, può rappresentare ciò che vuole o ciò che non ha il coraggio di pensare. Questi contenuti inconsci non-pensabili rappresentano momenti esperienziali del Sè appartenenti a fasi prementali dello sviluppo che Neumann ha chiamato “coscienza lunare” e gli psicologi genetici “fase psicosensoriale dello sviluppo”.

Anche Jung, pur non utilizzando dati neurofisiologici, non disponibili a suo tempo, in “Simboli della Trasformazione” (1952), ipotizza due forme del pensiero: un “pensiero diretto” responsabile delle considerazioni logiche e razionali e un “pensiero indiretto”, controllato direttamente dalle forme archetipiche dell’inconscio, che si esprime attraverso immagini e che in certe situazioni, va a sovrapporsi ai processi di pensiero organizzati, a volte stimolandoli, a volte confondendoli.

Il gioco della sabbia, incoraggia una regressione creativa, la quale, grazie alla sua interpretazione differita e a un deliberato scoraggiamento dell’uso del pensiero razionale, rende possibile la “guarigione”. Il potere dell’immagine creata rende possibile al paziente l’interazione con il gioco e la sua struttura, affinchè, nel contenuto inconscio proiettato dalle immagini, sia possibile scorgere il simbolo. Jung credeva che solamente ciò che è in noi stessi ha il potere di guarire (Jung, 1927-31).

La Sandplay Therapy fornisce quindi un linguaggio simbolico anche a chi non ha parole per esprimere il proprio malessere, consentendo di rappresentare il mondo interno così come si è costellato. Schiller diceva che l’uomo: “è totalmente uomo solo là dove gioca”.

Per diventare Sandplay therapist dopo l’abilitazione in psicoterapia si effettua un ulteriore master biennale in Sandplay Therapy, questo metodo è un’applicazione del pensiero e della pratica  junghiana alla psicoterapia di bambini e adulti.

In cosa consiste il gioco della sabbia

Il materiale necessario a lavorare con tale metodo consiste in una stanza con scaffali in cui sono ordinati numerosi oggetti in miniatura secondo varie categorie (esseri umani, animali, case, mezzi di trasporto, alberi, ….). tale materiale viene utilizzato dal paziente dentro cassette, di dimensioni stabilite, aventi il fondo blu e contenenti sabbia.

Tale forma di terapia ha quindi come filo conduttore quindi, il concetto di “spazio libero” e allo stesso tempo “protetto” (Kalff 1966); ciò è riconducibile al termine alchemico di temenos, un luogo dove possono essere riunite tutte le parti scisse della personalità e dove è possibile sperimentare nuove possibilità e scoprire una nuova dimensione di sé.

Tra i tanti oggetti presenti nella stanza, il paziente sceglie quelli che costituiscono delle immagini significative e che rappresentano, in quel momento, il linguaggio, della sofferenza psichica, inesprimibile verbalmente. Il quadro di sabbia che ne scaturisce, è una sintesi di interno ed esterno, di psichico soggettivo e di psichico oggettivo, cioè di personale e di archetipico (Kalff 1966, Montecchi 1993).

La Sandplay therapy si è dimostrata, un mezzo molto valido per il trattamento analitico di bambini, adolescenti ed anche di adulti, specie in una prima fase in cui prevale il pensiero concreto e la capacità simbolica è carente; poi,quando questa capacità viene recuperata, i “quadri di sabbia” possono essere integrati con l’analisi verbale. La sabbiera offre l’opportunità fungendo da temenos, da spazio libero, protettivo e contenitivo, in cui il paziente ha la possibilità di prendere contatto con se stesso, di contattare aree psichiche molto arcaiche e di entrare in contatto con il” piacere”. Soprattutto quindi quando la via verbale non permette di esprimere adeguatamente i propri disagi, con la rappresentazione scenica, il paziente ha la possibilità di descrivere, prima o poi, ciò che ha difficoltà ad esprimere, perché non può o non vuol dirlo e contenuti indistinti, confusi possono trovare la chiarificazione attraverso una raffigurazione visibile.

Lavorando con la sabbia si utilizza frequentemente l’affermazione di Jung (1957-58,), il quale sostiene che “spesso accade che le mani sappiano svelare un segreto intorno a cui l’intelletto si affanna inutilmente”,e le mani, infatti, a volte, parlano più chiaramente delle parole.

Le mani parlano e bisogna saperle ascoltare con un ascolto che non è solo uditivo. All’interno della relazione, terapeuta-paziente, infatti, l’analista vive, condivide e ascolta ciò che le mani e la corporeità esprimono. I pazienti, con le mani, hanno la possibilità di esprimere i contenuti dell’inconscio, in tal modo le tensioni emergono come rappresentazione e solo dopo come comprensione.